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Amplificatori in Classe D 

L’obiettivo che mi pongo con questo articolo è tanto apparentemente semplice quanto sostanzialmente ambizioso: cercherò infatti di spiegare, a livello estremamente divulgativo, il principio su cui si basa il funzionamento degli amplificatori switching.

L’A B C dell'amplificazione switching

Questo articolo l’ho scritto anche per chi ha modeste cognizioni di elettrotecnica ed elettronica (quelle strettamente indispensabili verranno accennate nel corso della trattazione) e spiegherà – o almeno proverà a farlo – il principio di funzionamento delle amplificazioni switching. Mi avvarrò di semplificazioni cercando essere il più chiaro possibile. Ritengo importante affrontare in modo sistematico ed esaustivo l’argomento, partendo dai rudimenti, dal momento che assai spesso audiofili ed autocostruttori parlano con apparente cognizione di causa di amplificazioni switching, indicate anche, in modo equivalente, come amplificazioni a commutazione (Classe D, Classe T, Classe fredda ed altro ancora) quando in realtà non è molto chiaro. Mi rendo infatti spesso conto che la stragrande maggioranza fa confusione in merito a queste tecnologie visto che il principio di funzionamento delle amplificazioni a commutazione è assai diverso e davvero nulla ha a che fare con quello delle analoghe realizzazioni di tipo tradizionale che, con linguaggio corretto, vanno definite di tipo lineare.

Come funziona un amplificatore switching?

A mio parere, il modo più semplice per spiegare la cosa è quello di effettuare tutta una serie di osservazioni, almeno inizialmente, in un ambito differente da quello sonoro. Le possibili modalità di accensione di una lampadina per esempio. Vedremo tra poco il perché di tale scelta e quanto i dettami, derivati dalle considerazioni che ad esso seguiranno, possano costituire efficace premessa alla comprensione del funzionamento in campo sonico delle amplificazioni switching. Riferiamoci a quanto illustrato in Fig.1:

Fig. 1

abbiamo un semplice circuito, simile a quello cui giornalmente ci troviamo di fronte nella nostra esperienza quotidiana e pertanto dovremmo esserci abituati e nulla ci dovrebbe risultare né nuovo, né difficile. L’interruttore posto in serie al circuito che connette la lampadina con la fonte di energia, che nella nostra esemplificazione è una pila, ma che potrebbe tranquillamente essere la 230V della presa elettrica, allorquando è aperto, come indicato in figura, non consente il passaggio della corrente elettrica verso la lampadina, la quale pertanto risulterà spenta. Consideriamo ora quello che accade in Fig.2

Fig 2

il tutto è simile a quanto riportato nella precedente immagine, con la sola differenza che l’interruttore è chiuso e conseguentemente si verifica il passaggio della corrente verso la lampadina, la quale pertanto si accende. Premesse queste semplicissime considerazioni, supponiamo di voler accendere la lampadina ad un valore di luminosità diverso da quello massimo, giusto per fissare le idee pari alla metà. La Fig.3 ci mostra cosa potremmo fare: al posto dell’interruttore potremmo porre un componente elettrico che si chiama resistenza, che, come dice la parola stessa, oppone una certa resistenza al passaggio della corrente, la quale, essendo da essa ridotta, accende la lampadina ad una intensità che è quota parte di quella massima. E’ evidente che, calibrando opportunamente la strozzatura al passaggio di corrente operato dalla resistenza, è possibile ottenere il risultato voluto: accendere la lampadina ad una intensità pari alla metà di quella precedentemente ottenuta in Fig.2, che ovviamente è da ritenersi la massima, operando con la sorgente di alimentazione a nostra disposizione. Infatti, riferendoci sempre a quanto accade in Fig.2, l’interruttore, essendo acceso, chiude il circuito e consente un pieno passaggio del flusso di corrente dalla sorgente di energia, nella fattispecie la batteria, all’utilizzatore, nella fattispecie la lampadina.

Ritorniamo ora ad esaminare con attenzione quanto accade in Fig.3:

Fig 3

grazie alla introduzione della resistenza, abbiamo raggiunto lo scopo di accendere la lampadina ad una intensità inferiore a quella massima, ma a quale costo? Una parte della tensione fornita dalla batteria cade ai capi della resistenza e contemporaneamente in essa scorre la corrente che alimenta la lampadina: il prodotto di questa caduta di tensione moltiplicato per la intensità della corrente che circola determina la potenza dissipata nella resistenza. Questa semplice nozione di elettrotecnica è indispensabile per una piena fruizione dei concetti che stiamo esponendo: allorquando, in un componente elettrico, contemporaneamente circola una corrente ed ai suoi capi si determina conseguentemente una caduta di tensione, il prodotto di I (la corrente) per V (la tensione) determina una dissipazione energetica, in altre parole il componente si riscalda. Eseguiamo inoltre quello che in gergo viene, con ovvio significato del termine, indicato come bilancio energetico; riferendoci sempre alla Fig.3, la batteria non solo dà l’energia deputata alla accensione della lampadina, ma anche quella dissipata nella resistenza: in altre parole una parte della potenza erogata dalla batteria viene dissipata, ovverosia perduta, nella resistenza ed il rendimento del sistema, considerato come rapporto tra energia fornita dalla batteria e quella utilizzata dalla lampadina, che è quella che realmente ci interessa (quella dissipata nella resistenza è purtroppo solo potenza sprecata) non è certamente pari alla unità, ovvero riportata in altra scala, pari al 100%. Per evitare quello che non esiterei a definire un vero e proprio spreco energetico, cerchiamo una valida alternativa alla tecnica di riduzione della luminosità precedentemente adottata. Riferiamoci per chiarezza a quanto rappresentato in Fig.4:

Fig 4

supponiamo, grazie ad una opportuna cadenza di chiusura e apertura dell’interruttore inserito nel circuito, di accendere e spegnere la lampadina ad intervalli regolari, un po’ come avviene per le frecce di direzione di una automobile. Nella nostra esemplificazione, il tempo durante il quale la lampadina è spenta è assolutamente uguale a quello durante il quale essa è accesa: che cosa accade? Il valore medio della luminosità è ovviamente pari alla metà di quello ottenuto accendendo costantemente la lampadina; inoltre, a patto ovviamente che la frequenza con la quale avvengono le ripetute alternanze sia sufficientemente rapida, ai nostri occhi, grazie al ben noto fenomeno della persistenza dell’immagine sulla retina, la lampadina non apparirà accendersi e spegnersi, ma piuttosto sembrerà brillare ad una intensità pari alla metà di quella massima che essa esibisce nel caso della Fig.2. Supponiamo ora di voler accendere la lampadina con una intensità differente, ad esempio pari ad un quarto di quella massima; seguendo sempre il medesimo procedimento, ipotizziamo di dividere l’unità di tempo in quattro parti e tenere accesa la lampadina solo nel primo quarto, così come per chiarezza riportato in Fig.5:

Fig 5

in questo caso il valor medio della intensità luminosa sarà pari al quarto di quella massima, così come ricercato. Anche in tale situazione, ovviamente a patto di tenere sufficientemente alta la velocità con la quale si alternano i periodi di accensione e spegnimento della lampadina, la luminosità di quest’ultima apparirà ai nostri occhi costante e precisamente pari ad un quarto di quella di Fig.2. Supponiamo infine di voler accendere la lampadina ad una intensità pari ai tre quarti di quella massima; riteniamo inutile soffermarci in ulteriori spiegazioni, ma ci limitiamo a riportare nella Fig.6 quanto deve opportunamente avvenire.

Fig 6

Questo è il risultato che volevamo ottenere ed in merito al quale conduciamo ora una importante serie di osservazioni. Innanzi tutto riteniamo di aver dimostrato che è possibile ottenere con semplicità, esclusivamente variando, nell’ambito della unità di tempo, la percentuale di accensione della lampadina e quella di spegnimento, una qualsivoglia luminosità intermedia della stessa. Ciò è di grande importanza se si tiene conto del fatto che, al contrario di quanto accadeva utilizzando la resistenza di attenuazione della intensità della corrente, in questo caso non vi è alcun dispendio energetico: la variazione della intensità è dovuta solo all’alternanza, opportunamente dimensionata nel tempo, di due fasi, in ciascuna delle quali non vi è alcuna dissipazione di potenza. Infatti, in un caso, la lampadina è completamente accesa e ciò corrisponde ad interruttore chiuso e nell’altro la stessa è totalmente spenta e corrisponde ad interruttore aperto: nella prima evenienza non vi è caduta di tensione ai capi dell’interruttore, mentre la circolazione di corrente è massima, nella seconda non vi è passaggio in esso di alcuna corrente, mentre la caduta di potenziale ai suoi capi è massima, in quanto pari a quella della batteria; poiché, come avevamo affermato sopra vi è dissipazione energetica solo se contemporaneamente caduta di tensione e corrente sono diverse da zero, nell’interruttore, per la stessa sua costituzione, non vi è mai dissipazione di potenza. E’ evidente che nella pratica, perché il tutto possa funzionare correttamente, non vi è di certo un interruttore meccanico freneticamente attivato, quanto piuttosto un componente elettronico adatto alla bisogna che, pilotato da un opportuno circuito, si comporti alla stregua dell’interruttore meccanico: esiste più di un componente elettronico a stato solido che, nell’ambito di frequenze di commutazioni non elevatissime, è in grado di approssimare assai bene il funzionamento di un interruttore praticamente perfetto. In secondo luogo, partendo dalla sintesi delle considerazioni sin qui fatte, abbiamo certamente un ulteriore elemento di grandissima importanza sul quale porre la nostra attenzione: abbiamo affermato che è possibile per l’occhio vedere la lampadina non accendersi a singhiozzo, bensì in modo continuo ad una intensità pari al valor medio della energia ad essa somministrata nel tempo, grazie alla capacità dell’occhio di integrare le informazioni succedutesi nel tempo, operando nella specialità del nostro caso, per esse una media; in altre parole, l’occhio si comporta come un filtro che elimina le variazioni più rapide della intensità luminosa. Perché l’azione filtrante risulti efficace, il fenomeno deve però svolgersi con opportuna velocità; nel caso quest’ultima fosse insufficiente, potremmo, come precedentemente detto, percepire distintamente il succedersi delle accensioni e degli spegnimenti, per poi, al crescere della frequenza con la quale si alternano, evidenziare uno sfarfallio che risulta assai stancante alla nostra visione e solo per un succedersi sufficientemente rapido dei fenomeni, vedere finalmente la luce come fissa.

Trasferiamo questi concetti nel campo dell'audio

Fig 7

Forti di quanto precedentemente sperimentato, cerchiamo di trasferire il tutto al campo audio.Riportiamo in Fig.7 lo schema funzionale di un amplificatore per audio frequenza: come è possibile constatare immediatamente esso può essere visto come la catena formata da un attuatore che, ricevendo in ingresso il segnale da amplificare, con la sua uscita comanda una resistenza variabile grazie alla quale circola, istante per istante, una corrente nell’altoparlante tale che il cono di quest’ultimo possa muoversi secondo una opportuna sequenza, ovviamente correlata al segnale in ingresso all’amplificatore. Certamente nella realtà della realizzazione pratica non vi sono resistori variabili, ma i transistor o le valvole di potenza altro non sono funzionalmente che delle resistenze che variano il proprio valore in ragione di un opportuno segnale di controllo. E’ immediato osservare che quanto illustrato nella parte destra di Fig.7 non è concettualmente dissimile da ciò che abbiamo riportato in Fig.3, allorquando ci siamo posti il problema di accendere la lampadina, con luminosità variabile a nostro piacimento: in entrambi i casi la presenza della resistenza che parzializza l’intensità della corrente da trasferire all’utilizzatore, in un caso la lampadina, nell’altro l’altoparlante, causa una notevole perdita di efficienza per i motivi che abbiamo precedentemente evidenziato. Supponiamo dunque di attuare anche nel caso dell’amplificatore audio un processo simile a quello seguito per l’accensione della lampadina senza perdite energetiche: il circuito di Fig.7 si trasforma pertanto in quello di Fig.8

Fig 8

dove vi è sempre un attuatore, ma ben diverso da quello precedentemente impiegato. Esso deve ora, con opportuna cadenza, accendere e spegnere l’interruttore posto in serie all’altoparlante, di modo che a quest’ultimo giunga un segnale il cui valor medio risulti correlato, istante per istante, a quello che è posto all’ingresso del sistema di amplificazione. Anche in questo caso dunque, analogamente a come abbiamo fatto nel caso della lampadina, attuiamo una modulazione del segnale non operando direttamente sulla intensità della corrente, bensì sull’alternanza dei tempi di circolazione di quest’ultima: la intensità della corrente è sempre quella massima, ma è il tempo durante il quale essa circola a venire controllato, come abbiamo visto in precedenza, secondo una opportuna logica di temporizzazione. Tutte le osservazioni circa il rendimento unitario del sistema, che abbiamo effettuato allorquando abbiamo esposto le modalità operative della lampadina, valgono anche in questo caso e pertanto il circuito di Fig.8 può essere a tutti gli effetti, a meno di un particolare per nulla trascurabile che evidenzieremo a breve, quello di un amplificatore switching, caratterizzato, così come suggerisce il nome, dalla presenza di un interruttore sull’uscita, deputato al comando dell’altoparlante. Nell’interruttore non vi è dissipazione energetica e pertanto il rendimento, almeno in teoria, di tali tipi di sistemi è pari alla unità: per ottenere ad esempio 100W in uscita sono necessari 100W prelevati dalla sorgente, sia essa una batteria o piuttosto la rete luce, opportunamente manipolata; nulla viene dissipato, l’amplificatore non scalda e può essere estremamente compatto grazie all’assenza di alette di raffreddamento. Abbiamo accennato al fatto che nel circuito di Fig.8 manca ancora un tassello, assai importante: nel paragrafo precedente, abbiamo evidenziato la essenziale funzione integratrice svolta dall’occhio, il quale funge da filtro nei confronti delle rapide variazioni di intensità, consentendoci di vedere la lampadina come accesa con costanza e non a singhiozzo. Analogamente, per evitare dunque che l’altoparlante proceda a balzelloni, guidato dagli impulsi e non dal loro valor medio, che, ricordiamolo, è il solo realmente correlato al segnale di ingresso all’amplificatore, è indispensabile aggiungere allo schema di Fig.8 un opportuno stadio di filtro; si giunge così alla circuitazione a blocchi riportata in Fig.9 che può essere considerata, a tutti gli effetti, quella definitiva e funzionalmente completa di un amplificatore a commutazione. Poiché lo stadio di filtro che abbiamo aggiunto è sostanzialmente il punto debole delle amplificazioni switching, dedichiamo ad esso il prossimo paragrafo.

Fig 9

Il filtro di uscita

La difficoltà realizzativa di questo filtro risulterà subito evidente viste le due principali caratteristiche che deve avere:

  • deve svolgere efficace azione integratrice nei confronti del segnale che proviene dall’interruttor restituendo all’altoparlante solo il valor medio del segnale impulsivo proveniente dall’interruttore;
  • non deve svolgere alcuna azione integratrice nei confronti del segnale audio: qualora ciò avvenisse, verrebbero perdute le più rapide variazioni temporali.

Compito arduo ! Il suo intervento deve infatti risultare estremamente efficace nei confronti di certe variazioni di segnale nocive ad un buon ascolto, ed invece inefficace, o meglio ancora trasparente, nei confronti di certe altre. In Fig.10 abbiamo evidenziato quanto ci aspettiamo dal filtro: tutti i segnali con frequenza almeno pari a 20.000Hz devono passare inalterati nelle sue maglie, mentre in queste ultime devono essere completamente intrappolati quelli relativi alla frequenza (od alle frequenze, dal momento che non sempre, soprattutto nelle realizzazioni più raffinate, essa è fissa) di commutazione dell’interruttore. Perché le cose si possano svolgere in maniera ottimale evidentemente due sono le strade percorribili: o la frequenza di commutazione viene innalzata tanto da essere di molto superiore ai 20.000Hz, diciamo almeno di qualche ordine di grandezza, oppure la pendenza del filtro (ovvero il comportamento a frequenze subito successive) deve risultare assai elevata, allo scopo di discriminare efficacemente i segnali desiderati rispetto a quelli indesiderati.

Fig 10
Fig 11

Le Fig. 10 e 11 riportano per chiarezza rispettivamente queste due possibilità. Diciamo subito che la seconda, quella attuata con un filtro caratterizzato da grande rapidità di attenuazione, è assai poco praticabile; infatti, dal momento che l’unità di filtro è direttamente interfacciata con il carico costituito dall’altoparlante, una sua realizzazione troppo complessa, indispensabile per il raggiungimento di una elevata pendenza, penalizzerebbe la qualità sonica per motivi che ci riserviamo di esaminare in ulteriori approfondimenti. Ci limitiamo qui a segnalare che ciò dipende dal fatto che il sistema di altoparlanti è caratterizzato da una impedenza non solo assai variabile con la frequenza, ma anche non nota a priori; peraltro sarebbe assai limitativo della versatilità dell’amplificatore volutamente circoscriverne il corretto funzionamento a ben determinati range di valori del carico. Non resta dunque che aumentare il più possibile la frequenza di commutazione, la qualcosa, allo stato attuale della tecnica, sta diventando percorribile, visto che con le ultime realizzazioni si sono toccati i 2 Mhz, quindi i milioni di cicli e in futuro si potrebbero superare i 5 Mhz, arrivando a una frequenza di commutazione anche più elevata di oltre dieci volte quella massima del segnale da amplificare, avvicinando oramai di moltissimo l’amplificazione switching a quella di tipo tradizionale. Le tecniche su accennate, seppure potrebbero essere di implementazione non eccessivamente onerosa a livello di componentistica e difficoltà realizzativa, sono in genere proprietarie e presenti solo su schede disponibili sul mercato già totalmente assemblate, caratterizzate da costi oramai neanche troppo impegnativi, tanto da trovarle a bordo di prodotti anche di costo relativamente basso.

L’uso della controreazione nelle amplificazioni switching

E’ ben noto che la controrerazione consente di ridurre le non linearità di un amplificatore. Il modo nel quale opera la controreazione dovrebbe essere chiara ai nostri lettori e follower, in questa sede però, a costo di essere prolissi, nulla vogliamo dare per scontato e conseguentemente accenniamo assai brevemente al suo principio di funzionamento. Il segnale in uscita all’amplificatore dovrebbe essere uguale a quello di ingresso a meno di un fattore di moltiplicazione pari al guadagno dell’amplificatore stesso. In altre parole istante per istante l’uscita dovrebbe valere G volte l’ingresso, laddove con G abbiamo per l’appunto indicato il guadagno, definito anche fattore di amplificazione, come illustrato nella seguente formula:

Vout = G x Vin

laddove, con ovvio significato della simbologia adottata, Vout e Vin sono rispettivamente la tensione del segnale in uscita e quella del segnale in ingresso, mentre con G abbiamo indicato il fattore di amplificazione del blocco “A”. Purtroppo, a causa delle inevitabili non linearità, indicate nel settore audio con il termine generico di distorsioni, imperfetta è l’uguaglianza tra il primo ed il secondo membro della formula precedente: per ovviare a ciò, la controreazione si incarica di confrontare l’uscita effettiva (certamente distorta) con quella teorica (idealmente priva di distorsione) e, partendo dall’analisi delle differenza tra le due, cerca di correggere in tempo reale il segnale di uscita, allo scopo di renderlo il più possibile simile a quello desiderato. Per chiarire al massimo il concetto di controreazione, riportiamo, in calce, un esempio, mutuato da tutt’altro settore: invitiamo i meno esperti alla sua lettura, propedeutica alla comprensione del seguito. Sappiamo bene che, laddove l’uso della controreazione è di sconsiderata entità, non si ottiene affatto un miglioramento delle prestazioni soniche dell’amplificatore, anzi tutt’altro, tant’è che spesso la migliore soluzione è quella di rinunciare completamente alla controreazione; ma allorquando, come nel caso delle amplificazioni switching, il sistema, allo stato attuale della tecnica, può cominciare a considerarsi soddisfacentemente lineare, con un impiego quantitativamente avveduto della controreazione. Per agire correttamente, la controreazione deve correggere il segnale di uscita distorto, necessariamente in tempo reale: ciò è abbastanza facilmente conseguibile nelle amplificazioni tradizionali, ma non in quelle switching, nelle quali le varie manipolazioni del segnale, di indispensabile attuazione in tali realizzazioni, inevitabilmente comportano un certo ritardo tra causa ed effetto. Alcune particolari ed ingegnose tecniche hanno recentemente consentito di superare questa limitazione: ciò ha reso possibile l’uso della controreazione che se, e ribadiamolo, solo se, è sapientemente dosata, consente reali miglioramenti delle prestazioni, non solo quelle esibite alle misure, ma anche e soprattutto quelle relative al comportamento in sala d’ascolto. Nelle attuali realizzazioni l’anello di controreazione ingloba non soltanto la sezione amplificatrice vera e propria, ma anche il filtro di uscita: ciò consente di superare in buona parte anche la limitazione d’uso delle amplificazioni switching derivante dalla necessità di filtrare la loro uscita. Come abbiamo avuto modo di evidenziare nel paragrafo ad esso dedicato, la filtratura del segnale nei sistemi qui considerati è sempre assai critica e comporta inevitabilmente un andamento della risposta in frequenza fortemente dipendente, soprattutto alle frequenze più alte della gamma audio, dall’argomento e dalla fase dell’impedenza di carico offerta dal diffusore; riuscire ad inglobare nell’anello della controreazione anche il filtro d’uscita e correggere pertanto le inevitabili non linearità ad esso riconducibili, consente di contenere fortemente la dipendenza prima esaminata; anche in questo caso, tali risultati sono soprattutto appannaggio delle realizzazioni  migliori e più attentamente progettate. A tal proposito sottolineiamo che, anche se due apparati utilizzano schede di amplificazioni di tipo analogo, provenienti ad esempio da un terzo costruttore di parti sciolte, non necessariamente le prestazioni globali sono sovrapponibili: spesso conta quasi più il contesto nel quale la scheda viene adoperata che non la scheda stessa. Un eclatante esempio di ciò si ha negli amplificatori di punta di alcuni importanti costruttori: ad esempio apparecchi che fanno uso della alimentazione stabilizzata a più stadi in cascata, raggiungono performance sconosciute a prodotti solo in apparenza equivalenti. Per convincersi di quanto la circuitazione periferica ad un componente faccia la differenza, basta riflettere sul fatto che, ad esempio nel caso dei lettori digitali, l’adozione del medesimo integrato preposto alla conversione non autorizza affatto a ritenere sovrapponibili le prestazioni che offrono le varie macchine che esso equipaggia.

Le amplificazioni switching ieri, oggi e domani

Dall’esame del passato e dal suo confronto con il presente, possiamo asserire che l’amplificazione switching si è oramai guadagnata un posto di tutto rispetto nell’alta fedeltà e addirittura nell’high end in qualche raro caso. I miglioramenti fondamentali rispetto alle prime timide realizzazioni sono eminentemente in due direzioni: un innalzamento della frequenza di commutazione ed un ampliamento dell’impiego della controreazione. Invitiamo a tal proposito a consultare, quale quadro sinottico riassuntivo, la Fig.12. Ovviamente restiamo alla finestra, pronti a riprendere la trattazione dell’argomento allorquando scorgeremo all’orizzonte delle significative novità di cui veramente valesse la pena parlare.

Fig 12

Scritto da Fulvio Chiappetta

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4 Commenti

  1. Ho letto l’art. dell’ing. Chiappetta, adesso anche un ” analfabeta ” come me ha iniziata a capirci qualcosa.
    Ma siccome l’appetito vien mangiando perché non recensire un NAD di pari livello del Cambridge Audio EVO 150? Sarebbe interessante sentire la vostra opinione in merito.
    Complimenti per la competenza e l’ronia che mettete nelle vostre recensioni, continuate così.

    • Salve, ci fa molto piacere che lei abbia gradito l’articolo. Fare divulgazione tecnica accessibile a tutti è tra i nostri obiettivi.
      Purtroppo non è facile procurarsi un NAD per farne una prova, il che non vuol dire che non ci proveremo.
      Continui a seguirci e grazie per i complimenti.

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